Intervista a Francesco Gabrielli, direttore del centro per la Telemedicina dell'Iss
Il dottor Francesco Gabrielli dirige il Centro Nazionale per la Telemedicina e le nuove Tecnologie assistenziali dell’Istituto Superiore della Sanità. Si occupa di promuovere, coordinare e sviluppare la ricerca in questo settore, sia in ambito clinico sia di governance di sistema. Esperto di tecnologie innovative applicate alla medicina, ha collaborato con GHT Onlus in Malawi, dove ha organizzato un corso di formazione assieme al nostro team. In questi giorni sta lavorando al primo report sulla telemedicina in Italia, basato sui dati raccolti dalla sua squadra lo scorso anno e relativi al triennio 2014-2017.
Dottore, qual è lo stato attuale dell’applicazione della telemedicina nel Paese?
Secondo i nostri dati, tra il 2014 e il 2017 in Italia sono nate circa 350 esperienze di telemedicina distribuite su tutto il territorio nazionale, alcune delle quali sono tuttora attive. Analizzando i dati abbiamo notato un’assoluta mancanza di coordinamento delle attività. Sono state fatte sperimentazioni in abiti diversi, con soluzioni ed esiti diversi. Non c’è alcuna omogeneità e mancano standard nazionali riconoscibili. L’unica cosa che c’è sono le linee di indirizzo nazionale, ma sono ormai concettualmente datate e andrebbero revisionate. Dopo di che non c’è stato nulla. Manca un quadro organico entro il quale operare. Si continuano a fare sperimentazioni in maniera non organizzata, non coerente, senza un reale coordinamento tra regioni e aziende sanitarie.
Un quadro complesso. Da dove pensate di cominciare per cambiare le cose?
Stiamo lavorando per creare un sistema nazionale per la telemedicina, un modello di lavoro all’interno del quale ognuno, a seconda delle necessità territoriali, potrà operare partendo da un riferimento di base ben definito. L'obiettivo è di rendere confrontabili le diverse esperienze e le soluzioni messe in campo.
Quanto ci vorrà per raggiungere degli standard efficaci e omogenei di utilizzo della telemedicina?
Siamo ancora lontani, non ci sono le basi di conoscenza scientifica perché non esistono studi mirati. In un anno e mezzo abbiamo lavorato molto su questo: abbiamo istituito un gruppo nazionale di studio sulla cyber security in sanità e uno per la valutazione economica dei servizi di telemedicina. Abbiamo effettuato la prima ricognizione su base nazionale e il primo studio sul glossario italiano di telemedicina. Adesso stiamo preparando le linee guida specialistiche per l’applicazione nelle varie discipline mediche.
Che dialogo avete con le istituzioni politiche, avete avanzato proposte?
Come detto, mancano i riferimenti complessivi per pensare a quali norme potrebbero essere utili. Il ministero della Salute ha già i dati che abbiamo raccolto e sta inserendo i nostri modelli nel nuovo sistema informativo sanitario nazionale, in modo che le regioni forniscano le stesse informazioni che abbiamo chiesto nel corso della ricognizione. I decisori politici stanno cominciando a chiedere informazioni. E’ ancora presto per parlare di un piano per una governance di sistema in quest’ambito e delle norme necessarie entro il quale progettarlo.
Quali sono le potenzialità dell’applicazione della telemedicina in Italia?
Sono innumerevoli. Può avere un enorme impatto sulla prevenzione e sicuramente porterebbe un beneficio immediato per i pazienti con patologie croniche, che oggi hanno un rapporto con la sanità oggettivamente difficile (spesso c’è discontinuità nella presa in carico o nell’aderenza alla terapia). La telemedicina potrebbe migliorare notevolmente la gestione di questi casi. Si potrebbe riuscire a diminuire notevolmente il carico di lavoro dei pronto soccorso, una delle più grandi speranze che abbiamo. Senza contare le opportunità per il sistema sanitario legato ai piccoli centri rurali o montani. Se potessimo sfruttare servizi di telemedicina regionali ben coordinati con le aziende sanitarie locali e con l’appoggio dei medici di medicina generale, avremmo un enorme vantaggio per la popolazione.
Quanto può far risparmiare la telemedicina al nostro sistema sanitario?
Non c’è ancora una valutazione costi benefici definitiva. Ma si può dare un’idea del potenziale risparmio: ogni ricovero giornaliero costa in media tra le 500 e le 800 euro. Potremmo evitare molti ricoveri e garantire una cura a domicilio sicura. O ad esempio potremmo monitorare i pazienti cardiopatici e prevedere episodi di scompensi cardiaci limitando gli accessi al pronto soccorso. Solo con l’applicazione su questa patologia il risparmio sarebbe enorme. Ci sono poi le possibilità offerte per le diagnosi, i programmi di screening e molto altro.
Lei ha collaborato con GHT Onlus, cosa ne pensa dell'utilizzo della telemedicina nella cooperazione?
E’ la chiave per rivoluzionare la cooperazione sanitaria. Il lavoro del dottor Bartolo e di GHT ha dimostrato che con la telemedicina si possono ottenere risultati immediati e duraturi con risorse limitate. Oltre a questo, è un approccio che "costringe" le persone a formarsi e aiuta a sviluppare l’autonomia dei sistemi sanitari locali.